I Tutorial WeCa: dal 2016 per accompagnare la Chiesa nel digitale
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I tutorial WeCa sono pensati per:
I tutorial di WeCa sono realizzati dall’Associazione WebCattolici Italiani (WECA) in collaborazione con l’Ufficio nazionale per le Comunicazioni Sociali della CEI e il CREMIT dell’Università Cattolica di Milano
Sul sito dell’Associazione WebCattolici Italiani www.weca.it è possibile seguire l’evoluzione dei Tutorial WeCa fin dal lontano 2016, uno straordinario lavoro di squadra che deve moltissimo alla lungimiranza di Giovanni Silvestri, all’epoca presidente WeCa e all’entusiasmo e la passione di Fabio Bolzetta, primo volto dei Tutorial e oggi presidente WeCa.
Pensati come strumento di aiuto concreto alle parrocchie e agli operatori pastorali come semplici risposte alle domande più comuni tra le quali “Come posso far trovare la mia parrocchia su Google? Come creo la pagina Facebook? Come posso indicare l’orario delle messe?”, i Tutorial WeCa si sono via via trasformati in un appuntamento settimanale per affrontare le tematiche dell’incontro tra Chiesa e digitale.
I Tutorial cercano di proporre risposte concrete a domande altrettanto dirette sui rapporti tra la fede, la vita parrocchiale, religiosa e associativa e il digitale. La Rete, infatti, è sia strumento concreto per la pastorale, l’evangelizzazione, l’educazione e la comunicazione con i fedeli ma è anche un nuovo ambiente che tutti ci troviamo ad abitare con le sue regole, le sue abitudini, i suoi linguaggi. L’esperienza delle prime stagioni dei Tutorial è stata “condensata” in una guida pratica alla Rete dal titolo “La Chiesa nel digitale. Strumenti e proposte”, pubblicata nel giugno scorso a cura di Fabio Bolzetta, edita da Tau Editrice e introdotta dalla prefazione di papa Francesco.
Dopo le sinergie con l’Ufficio liturgico della Conferenza Episcopale Italiana, la Diocesi di Roma, la Fidae e la Pontificia Academia Mariana Internationalis, prosegue la collaborazione con il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano integrale su attualità e Magistero sociale.
I tutorial di WeCa sono realizzati dall’Associazione WebCattolici Italiani (WECA) in collaborazione con l’Ufficio nazionale per le Comunicazioni Sociali della CEI e il CREMIT dell’Università Cattolica di Milano. Tutti i video prodotti sono pubblicati sul sito www.weca.it, sui canali social di WECA e vanno in onda sulle TV del circuito Corallo. I tutorial sono disponibili anche in formato podcast sulla piattaforma audio ‘Spotify’ e possono essere ascoltati anche, attraverso comando vocale, sui dispositivi compatibili con ‘Amazon Alexa’ grazie alla skill ‘WebCattolici’.
Programma radiofonico in onda su BluRadio Veneto tra il gennaio 2012 e il luglio 2013
Dalla Difesa del Popolo dell’8 gennaio 2012:
I temi della quotidianità alla luce della dottrina sociale
Martedì 10 gennaio parte un programma in collaborazione con la pastorale sociale
Il bene di tutti: parliamone! è il titolo della nuova rubrica radiofonica, a cura dell’ufficio per la pastorale sociale e del lavoro della diocesi, che va in onda tutti i martedì, alle ore 18.25 circa, sulle frequenze di BluRadio Veneto (88.70 e 94.60), a partire dal 10 gennaio. La breve striscia settimanale affronterà di volta in volta i temi più cari ai quotidiani e ai telegiornali, come politica, economia, società e lavoro, analizzati però alla luce degli insegnamenti della dottrina sociale della chiesa.
«Ad introdurre in ogni puntata questi argomenti – spiega Andrea Canton, giovane conduttore della trasmissione – saranno alcuni brani tratti dalle encicliche sociali, che, da Leone XIII in poi, hanno affrontato problemi molto concreti della vita civile. È strabiliante la lucidità di analisi e a volte addirittura la preveggenza che i pontefici hanno dimostrato negli anni analizzando le questioni del sociale. Penso ad esempio al lavoro e allo sviluppo sostenibile».
I passi del magistero saranno interpretati e discussi, nel corso della trasmissione, da ospiti in collegamento telefonico. «Nelle prime tre puntate saremo in compagnia di don Marco Cagol – aggiunge il conduttore – delegato vescovile alla pastorale sociale e del lavoro, che spiegherà cos’è la dottrina sociale della chiesa e cosa può e vuole offrire all’uomo del 2012. Poi, settimana dopo settimana, allargheremo il nostro orizzonte, parlando di pace, lavoro, economia e politica con esperti di primordine del nostro territorio». E promette:
«Seppur nella brevità cercheremo di arrivare al nocciolo della questione».
La quarta puntata, in programma il 31 gennaio, chiuderà il mese che la chiesa dedica alla pace: «Sarà con noi – conclude Canton – Alessandra Coin, responsabile della Comunità di Sant’Egidio di Padova, con cui parleremo dei numerosi conflitti ancora in corso nel mondo e cosa l’Occidente, e in particolare i cristiani, possono fare per riaffermare il valore della pace».
Oltre alla diretta, la trasmissione “Il bene di tutti: parliamone!” sarà disponibile sul sito di BluRadio Veneto e su quello della pastorale sociale e del lavoro della diocesi. Per contattare la redazione si può mandare una mail all’indirizzo redazione@bluradioveneto.it
Questa foto, scattata con il mio solito smagliante sorriso, sintetizza la mia copertura della Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona, nella capitale portoghese dal 1° al 6 agosto 2023.
Inviato per la Difesa del Popolo, per l’Associazione WebCattolici Italiani e per le Settimane Sociali, ho raccontato l’evento in diretta e ho raccolto materiali utili per raccontare la connessione dei più giovani con le nuove tecnologie e la loro visione sui temi della partec
“Pronto: mondo?” è il titolo della rubrica di BluRadioVeneto, curata da Andrea Canton, in onda ogni venerdì, a partire da domani, alle ore 17.05 e in replica la domenica mattina alle ore 9.30, in cui si racconterà la missione per bocca degli stessi missionari, attraverso singole storie, motivazioni, progetti e piccoli semi di speranza piantati nei terreni del mondo. La trasmissione si può ascoltare direttamente dalle frequenze di BluRadioVeneto (FM 88.70) e il sabato mattina in podcast sul sito di BluRadioVeneto, sul sito e sulla pagina Facebook dell’Ufficio di pastorale della missione della diocesi di Padova. Spiega il responsabile dell’Ufficio, don Gaetano Borgo: “Sentivamo l’esigenza di ridurre le distanze che ci separano dai nostri missionari”. Ogni settimana il telefono di “Pronto: mondo?” squillerà in un paese diverso dei cinque continenti. A rispondere sarà uno degli oltre 700 missionari padovani. Unica eccezione, fuori scaletta “padovana”, la puntata di partenza dal titolo “Missionari oggi”, che vedrà ospite padre Giulio Albanese, missionario comboniano, giornalista e fondatore dell’agenzia Misna, con una lunga esperienza in Africa, con il quale, spiega il conduttore Andrea Canton, “si cercherà di comporre un ritratto dei missionari italiani, per far emergere, almeno in parte, una porzione di questa grande ‘economia sommersa del bene’.” “
Un mese fa, il 4 dicembre, ha compiuto 60 anni uno dei decreti più importanti del Concilio Vaticano II, l’Inter Mirifica, dedicato agli strumenti di comunicazione sociale.
L’Inter Mirifica, ovvero “tra le meravigliose (invenzioni tecniche)”, annuncia la «particolare sollecitudine» che la Chiesa ha per le tecnologie «che più direttamente riguardano le facoltà spirituali dell’uomo e che hanno offerto nuove possibilità di comunicare, con massima facilità, ogni sorta di notizia, idee, insegnamenti». Più dello Sputnik o dei razzi Apollo, più delle tecnologie domestiche – dal frigorifero alla lavatrice – che negli anni sessanta stavano rivoluzionando la quotidianità delle famiglie, i padri conciliari avevano intuito come «la stampa, il cinema, la radio, la televisione e simili» potessero sia offrire «al genere umano grandi vantaggi, perché contribuiscono efficacemente a sollevare e ad arricchire lo spirito», sia poter essere adoperati «contro i disegni del Creatore e volgerli a propria rovina». I 60 anni che sono passati hanno di fatto stravolto lo scenario mediatico descritto dal documento. Paolo VI e i vescovi dell’epoca non potevano forse nemmeno prefigurarsi le radio libere, la tv commerciale, la digitalizzazione, Internet, i social media, le intelligenze artificiali, gli algoritmi, i richiami delle realtà virtuali. Eppure, l’approccio che il decreto ci offre di fronte a queste meraviglie – in latino Mirifica – non è invecchiato di una virgola. È un approccio sempre integrato, mai apocalittico, che guarda alle novità con interesse, invita alla formazione, all’uso consapevole, all’impiego di questi strumenti – oggi diremmo a popolare questi ambienti – con l’annuncio di Cristo, che non cambia. Questa rubrica, “Mirifica”, offrirà uno sguardo, settimana dopo settimana, a queste «tecniche meravigliose» con l’ottimistica pretesa di poterle dominare a servizio del bene.
The training provided by universities in order to prepare people to work in various sectors of the economy or areas of culture.
Higher education is tertiary education leading to award of an academic degree. Higher education, also called post-secondary education.
Secondary education or post-primary education covers two phases on the International Standard Classification of Education scale.
Google’s hiring process is an important part of our culture. Googlers care deeply about their teams and the people who make them up.
A popular destination with a growing number of highly qualified homegrown graduates, it's true that securing a role in Malaysia isn't easy.
The India economy has grown strongly over recent years, having transformed itself from a producer and innovation-based economy.
In team, curo la comunicazione, l’ufficio stampa e la presenza social della Simfer, Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa, prendendo parte anche agli eventi principali e ai congressi. Curo per conto di Simfer una rassegna di webinar, talk show in diretta web sui temi della salute.
Mi occupo della comunicazione social dell’ISPRM, società mondiale di medicina fisica e riabilitativa, nonché della formazione dei partecipanti alla commissione editoriale. Nel luglio 2022 ho partecipato al congresso mondiale di Lisbona e nel giugno 2023 al congresso mondiale di Cartagena, in Colombia, per interviste.
Mi occupo della comunicazione social e dell’ufficio stampa della Sirn, società italiana di riabilitazione neurologica, prendendo parte ai congressi.
Dall’aprile 2017 curo la comunicazione social e le uscite a mezzo stampa di Anma, Società dei Medici d’Azienda e Competenti. Ho curato e promosso i congressi annuali nonché una serie di webinar.
Dal gennaio 2020 al dicembre 2022 ho curato la comunicazione social e le uscite a mezzo stampa di Aiop, Accademia Italiana di Odontoiatria Protesica. In virtù dell’emergenza Coronavirus si è intensificata l’attività social, con webinar e congressi. Dal gennaio 2023 la collaborazione è limitata ai soli eventi.
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Per stare male non ho bisogno di vedere i filmati degli “scherzi” con cui qualche bullo ha ucciso – moralmente e materialmente – Andrea Natali, il giovane che si è tolto la vita a 26 anni impiccandosi in camera sua.
Mi basta questa foto. Il dolore della mamma, col volto composto della casalinga che l’ha cresciuto preparandogli da mangiare e rimboccandogli le coperte da piccolo. Il dolore del papà, questo artigiano che si domanda, tenendo con la mano grossa grossa come una reliquia sacra l’immagine del figlio, se le cose sarebbero potute andare diversamente. Se solo Andrea avesse incontrato altre persone lungo il suo cammino.
Questa foto mi angoscia terribilmente perché in questa mamma e in questo papà mi pare di rivedere i miei genitori. Per certi aspetti ci assomigliano anche un po’.
E provo a immaginare se oggi, invece che su “La Stampa”, questa foto fosse stata pubblicata sul “Mattino”. Ma con i miei genitori. E con una mia foto tra le mani.
Questa immagine, e la notizia che l’accompagna, mi fa ricordare come anch’io, alle medie, sia stato vittima di bullismo. “Lo siamo stati tutti”, penserete. Forse è vero. E ripensandoci si è trattato probabilmente di poca roba da pesare nella bilancia che è la vita. Anche io ero “particolare”, un tipo un po’ intrattabile, in quegli anni di benessere economico che ricordiamo come la fine anni ’90.
Ma quando il bulletto ti chiama ripetutamente “merda umana” e nessuno della tua classe dice nulla per difenderti, quando i professori osservano le ritualità del branco senza proferire parola, annoiati e stanchi, quando in tre anni sei l’unico della classe a beccarti una sospensione perché al termine di una mattinata di continue prese in giro batti il piede per terra e il bulletto fa finta di essere stato colpito… E tante, tante altre situazioni… Una cicatrice ti resta. Anche quando puoi rimani in “buoni” rapporti con quelle stesse persone. Perché poi si cresce e si mette la testa a posto.
Ma intanto, quando hai 13 anni, pensi che sei tu quello sbagliato. Totalmente sbagliato. Che è meglio stare da soli per evitare grane. Che tanto la tua presenza è inutile e che sono loro, i “bulletti”, quelli che hanno capito tutto della vita. E allora ti isoli davvero. E resti solo. Coltivi il tuo microcosmo. E quando arrivano gli amici, quelli veri, e ormai hai oltre vent’anni, le cose iniziamo a sistemarsi. Ma sai di esserti perso molto nel frattempo, a partire dai compagni di classe delle superiori dei quali non hai mai coltivato amicizie davvero profonde perché ancora troppo “scottato” dai coetanei delle medie. Sai che quelle cicatrici – forse non le uniche – resteranno. E condizioneranno ancora a lungo quello che sei. Anche se in sostanza quello che è capitato a te è un centesimo di quello che è capitato, in età adulta, al povero Andrea di Vercelli.
Se scrivo queste righe non è per denunciare ingiustizie ormai cadute in prescrizione, né per chiedere a chi fa il nobile lavoro di professore, o veglia sui luoghi di lavoro o nei più disparati contesti sociali, dagli allenatori agli animatori, di impedire che certi “scherzetti” innocenti si tramutino – come al loro solito – in ferite che non guariscono più. Specie ora che ci sono gli smartphone.
È che questa foto, in questa mezzanotte di venerdì sera, mi fa un male cane e non so spiegarmi il perché. Ma forse è perché rappresenta l’impotenza di chi ti vuole bene di fronte a un mondo che non vede l’ora di sbranarti, senza un valido motivo, per giunta.
Perché autonomisti ed europeisti devono allearsi. E in fretta.
Per alcuni un azzardo, per altri una bestemmia. Da una parte ci sono i “barbari sognanti” che negli anni ’90 sognavano un Nord libero da Roma. Ci sono i promotori dei referendum (e delle trattative) per una maggiore autonomia delle Regioni. C’è chi vorrebbe – non solo per slogan – “essere padrone a casa sua”. Dall’altra parte c’è chi, fin dalle macerie delle guerre mondiali, sogna un’Europa spazio comune per merci, capitali, imprese ma soprattutto persone. C’è la generazione degli Erasmus che l’Europa unita non la sogna ma già la vive spostandosi da una capitale all’altra. C’è chi, con la sua botteghina e la sua fabbrichetta all’ombra delle Alpi, lavora a stretto contatto con francesi, sloveni, austriaci e tedeschi come se fosse la cosa più naturale del mondo, perché in questi decenni lo è diventata.
Autonomisti ed europeisti. Istanze molto diverse in apparenza, ma un unico grande e pericoloso nemico: il sovranismo nazionalista, desideroso di bruciare ogni identità e ogni appartenenza sulla pira innalzata all’idolo dello Stato centrale.
Abbiamo già sperimentato quanto siano forti gli appetiti di questo centralismo assoluto. All’epoca del Risorgimento, le volontà di popoli assai diversi di potersi autodeterminare in una confederazione di Stati liberi, sul modello svizzero proposto da Gioberti, venne piegata dalla smania accentratrice di Casa Savoia, che da una parte ha ritardato di un secolo lo sviluppo del Nordest, dall’altra ha creato quella questione meridionale che da allora non ha mai smesso di aggravarsi. I generali macellai della prima guerra mondiale prima e il fascismo hanno poi chiesto a milioni di italiani di sacrificare la vita sull’altare di uno Stato nato pochi decenni prima. Anche in epoca Repubblicana le istanze romane hanno sempre avuto la meglio sui bisogni dei territori, dal rifiuto di dare più poteri a Comuni e Province in sede di Assemblea Costituente fino alla sciagurata scelta di Tremonti di far rispettare il Patto di Stabilità Europeo non facendo dimagrire i ministeri e tagliando gli sprechi, ma castrando gli enti locali impedendo di spendere quelle poche decine di migliaia di euro in marciapiedi e asfaltature.
Lo Stato centrale agisce come il leviatano descritto da Thomas Hobbes: nessuna realtà è sopra di lui, nessun potere può superarlo. Ma in questo mondo sempre più complesso e sempre più piccolo, circondato da immense potenze, l’Europa negli ultimi decenni ha iniziato a fare squadra, generando, innegabilmente, prosperità economica, benessere e pace. E ogni accordo, anche il più piccolo, viene sempre descritto come “cessione di sovranità”. Proprio qui si può vedere il primo assurdo: non sono i popoli che cedono la sovranità, ma gli Stati, gli unici titolari di ogni potere.
Autonomisti ed europeisti contestano allo stesso modo lo strapotere dello Stato centrale: i primi desiderosi di salvaguardare le identità locali, sia dal punto di vista culturale e linguistico che da quello politico, i secondi, invece, per lavorare ancora di più alla costruzione di una “casa comune europea”, spazio politico, unico al mondo, graziato da un capitalismo che con i contrappesi del welfare garantisce benessere alla più vasta platea di cittadini della storia.
È tempo di rileggere quel principio di autodeterminazione dei popoli sancito dal diritto internazionale in un modo completamente diverso rispetto al passato. Lo scrivente si sente veneto, si sente italiano, si sente europeo, perché fa effettivamente parte del popolo veneto, del popolo italiano e del popolo europeo. Sarebbe una follia sacrificare – o anche solo sminuire – alcune di queste identità contro un’altra, come vorrebbero fare i sovranisti.
Un legislatore ispirato riscriverebbe l’attuale governance attraverso il principio di sussidiarietà a tutti i livelli. Tradotto: ogni istanza dovrebbe venire affrontata il più vicino possibile ai cittadini e dovrebbe diventare di competenza di un ente superiore solo quando questa potrebbe venir risolta al meglio. È assurdo rivolgersi a Roma per asfaltare una strada, quando può farlo il sindaco. Per lo stesso principio di sussidiarietà, è assurdo in Europa avere 27 eserciti nazionali diversi per difenderci dalle stesse minacce, è assurdo non avere un unico database dei sospettati di terrorismo o di traffici umani, è assurdo non avere un’unica politica migratoria comune ed è assurdo marciare sparsi per i grandi temi di politica estera.
Il Trattato di Lisbona, firmato nel 2007, propone anche nuove soluzioni ai bisogni di oggi. Pochi ne hanno sentito parlare, ma il 18 ottobre 2013, a Grenoble, sette nazioni e 48 regioni diverse hanno fondato la “Macroregione Alpina Eusalp”, spazio economico che concentra, da Monaco a Milano, da Lione a Vienna, tra le città e le regioni più ricche e produttive del mondo, Svizzera e Liechtenstein compresi. Un imprenditore e un lavoratore lombardo sono più connessi con il Ticino che con Palermo, la PMI di Treviso ha più clienti in Carinzia che a Napoli. E allora perché ciò che succede in Sicilia o in Campania dovrebbe avere un maggiore impatto sulle sue tasche?
I sovranisti, invece, con le loro politiche, non faranno che rendere le Regioni del Nord più lontane dall’Europa e più vicine al Sud, non per risollevarlo – anzi, a narcotizzarlo definitivamente ci penserà il reddito di cittadinanza – ma per assumerne, forse, le sembianze. Per spaventarsi basta leggere le analisi dei cosiddetti “no-euro”, per i quali per produrre ricchezza non bisogna tornare ad investire sul lavoro, sulla competitività, sulla crescita, ma semplicemente stampare moneta e ricorrere all’inflazione, odiosa tassa occulta che penalizza proprio chi lavora e chi risparmia. Gli ideologi del “no-euro” di scuola toscana sembrano ignorare che ogni cesura con l’Unione Europea getterebbe sul lastrico primo tra tutti quel Nord produttivo e risparmiatore: criticare l’Europa va bene, cercare di distruggerla e venirne travolti (vedasi il caso Brexit) in nome di un tricolore fino a cinque anni prima calpestato è pura follia, o, peggio ancora, totale disonestà politica.
Se il governo gialloverde continuerà con le sue politiche di assistenzialismo e di centralismo in pochi anni la questione settentrionale tornerà di strettissima attualità, possibilmente in modo ancora più drammatico rispetto al passato.
È urgente, dunque, un dialogo aperto e franco tra autonomisti ed europeisti al di là di ogni steccato ideologico, per farsi trovare pronti alle sfide che presto verranno:
La scena è quella che potremmo definire una “scena madre”, crocevia dell’intero racconto. È questo il punto a cui lo spettatore è stato pazientemente condotto. È qui che tutto cambierà, che la storia prenderà la sua giusta tangente e acquisterà il suo senso.
Ci troviamo, dopo l’ennesima avventura, in una stazione ferroviaria isolata nel bel mezzo della prateria. Il protagonista non è più il baldanzoso cowboy che avevamo conosciuto all’inizio, ma un bandito stanco e malato, costretto da una tubercolosi terminale a fare i conti con la sua mortalità. Il capobanda, Dutch, verso il quale aveva riposto tutta la sua fiducia, è ormai fuori controllo. L’unica preoccupazione che è rimasta a quest’uomo morente è mettere in salvo le persone a cui tiene.
Vicino al cowboy siede una suora, una religiosa in partenza per la missione in Messico, incontrata lì per caso. Si conoscono: in passato il bandito aveva dato una mano alla suora per il suo orfanotrofio. Lei lo guarda, e vede in lui tutto il bene che il vecchio cowboy non era mai stato in grado di vedere in sé stesso.
“Io non credo in niente”, confessa Arthur. “Anch’io il più delle volte”, risponde la suora, “ma poi vedo persone come lei e tutto ritrova il suo senso”. “Ho paura”. “Non c’è nulla di cui avere paura. Scommetti sul fatto che l’amore esista davvero e compi un atto d’amore“. E il cowboy va incontro alla sua redenzione.
No, non è una scena di un film di Sergio Leone, accompagnata da una colonna sonora di Morricone. Non è nemmeno un romanzo, né uno di quei serial TV che vanno tanto di moda negli ultimi anni.
La scena appena descritta è una sequenza di gioco di “Red Dead Redemption 2”, videogioco uscito per Playstation 4 e Xbox One lo scorso 26 ottobre. Ambientato nel 1899, questo gioco supera per investimenti e soprattutto per incassi i più grandi kolossal di Hollywood, con 725 milioni di dollari guadagnati nei primi tre giorni di vendita.
“Red Dead Redemption 2” è un videogioco “open world”. Il giocatore può fare virtualmente tutto ciò che vuole, spostarsi a cavallo in un’area sconfinata di decine di chilometri quadrati per andare a caccia, affrontare bande rivali, entrare in un saloon per giocare a poker o scazzottarsi con gli avventori ubriachi. È un’esperienza “immersiva” ai limiti del fotorealismo che si prende molto sul serio.
Il gioco è stato prodotto da “Rockstar Games”, la stessa software house responsabile di titoli come GTA, criticati per la violenza e per la possibilità di compiere un’innumerevole serie di reati. Si tratta di titoli rigorosamente vietati ai minori di 18 anni, pensati per un pubblico adulto, esattamente come serie TV come Breaking Bad o film come Pulp Fiction di Tarantino.
Come il blogger di Famiglia Cristiana Giuseppe Romano invitava a fare cinque anni fa in occasione del lancio di GTA 5, «se a un adulto non piace […] addossarsi il ruolo del delinquente per gioco, libero di non comprare GTA e di sconsigliarlo. Ma non di sottovalutarlo».
Il rischio più grosso di fronte al variegato mondo dei videogiochi è proprio la sottovalutazione da parte di chi non se ne intende, oppure, peggio ancora, guarda al fenomeno come un mero passatempo per ragazzini, uno sterile killer di neuroni. La TV fa meno paura: molti genitori permettono ai figli di poltrire per ore di fronte alla TV, ma appena sentono il “beep” di una Playstation che si accende scatta il panico.
Ma i videogiochi, fenomeno di massa ormai da quarant’anni con i primi Atari domestici, sono quanto di più serio ci possa essere, sia per numeri che per qualità di alcuni prodotti.
Chiariamoci: ci sono videogiochi orribili, ci sono videogiochi assolutamente non adatti per i bambini, ci sono videogiochi – anche quelli apparentemente innocenti pensati per le massaie con il telefonino – che sfruttano meccanismi compulsivi e sviluppano dipendenza. Eppure, nello scenario attuale, vi sono titoli straordinari, poetici, educativi anche quando non didattici.
Educatori, insegnanti, genitori non possono più ignorare l’esistenza di questo mondo, ma devono quanto prima impararne le logiche che lo governano, devono capire quali sono i titoli adatti ai ragazzi e quali no, devono comprendere, quando non possono condividere, i motivi che rendono alcuni titoli attrattivi rispetto agli altri. I rischi della rimozione sono molteplici, dal lasciare che il ragazzo si addentri in mondi che non gli competono all’abuso, fino alla colpevolizzazione aprioristica da parte dei genitori verso ciò che non si comprende.
I videogiochi non sono – e forse non sono mai stati – un fenomeno marginale. Sono un media a sé, con alti e bassi, specificità e pericoli, opportunità e linguaggi propri come cinema e televisione. Le comunità cristiane fin dagli albori del grande e del piccolo schermo hanno fatto sentire la loro presenza per guidare, suggerire ed eventualmente mettere in guardia. Questo sforzo non può venire meno adesso.
Tornando a “Red Read Redemption 2”, nessuno potrà negare che sia un’opera magistrale, anche se non adatta ai minori esattamente come un crudo spaghetti western degli anni ‘70. In questo gioco potremmo fare di tutto: sparare, uccidere, derubare. Potremmo, perché la storia di Arthur, il suo personale cammino di conversione, ci porterà a scegliere scientemente di non farlo, anzi, pure in questo mondo virtuale sentiremo la responsabilità di fare sempre la cosa giusta, anche quando ci costerà fatica, impegno e denaro (virtuale).
In altri videogiochi si accumula denaro e si diventa più forti. In “Red Dead Redemption 2” si diventa più deboli e si dà via la ricchezza acquisita per riparare il maltolto e cercare la redenzione. È qui che sta la cifra del capolavoro.
Andrea Canton
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