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I throw myself down among the tall grass by the stream as Ilie close to the earth.
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Ferite

Ferite
Per stare male non ho bisogno di vedere i filmati degli “scherzi” con cui qualche bullo ha ucciso – moralmente e materialmente – Andrea Natali, il giovane che si è tolto la vita a 26 anni impiccandosi in camera sua.
Mi basta questa foto. Il dolore della mamma, col volto composto della casalinga che l’ha cresciuto preparandogli da mangiare e rimboccandogli le coperte da piccolo. Il dolore del papà, questo artigiano che si domanda, tenendo con la mano grossa grossa come una reliquia sacra l’immagine del figlio, se le cose sarebbero potute andare diversamente. Se solo Andrea avesse incontrato altre persone lungo il suo cammino.
Questa foto mi angoscia terribilmente perché in questa mamma e in questo papà mi pare di rivedere i miei genitori. Per certi aspetti ci assomigliano anche un po’.
E provo a immaginare se oggi, invece che su “La Stampa”, questa foto fosse stata pubblicata sul “Mattino”. Ma con i miei genitori. E con una mia foto tra le mani.
Questa immagine, e la notizia che l’accompagna, mi fa ricordare come anch’io, alle medie, sia stato vittima di bullismo. “Lo siamo stati tutti”, penserete. Forse è vero. E ripensandoci si è trattato probabilmente di poca roba da pesare nella bilancia che è la vita. Anche io ero “particolare”, un tipo un po’ intrattabile, in quegli anni di benessere economico che ricordiamo come la fine anni ’90.
Ma quando il bulletto ti chiama ripetutamente “merda umana” e nessuno della tua classe dice nulla per difenderti, quando i professori osservano le ritualità del branco senza proferire parola, annoiati e stanchi, quando in tre anni sei l’unico della classe a beccarti una sospensione perché al termine di una mattinata di continue prese in giro batti il piede per terra e il bulletto fa finta di essere stato colpito… E tante, tante altre situazioni… Una cicatrice ti resta. Anche quando puoi rimani in “buoni” rapporti con quelle stesse persone. Perché poi si cresce e si mette la testa a posto.
Ma intanto, quando hai 13 anni, pensi che sei tu quello sbagliato. Totalmente sbagliato. Che è meglio stare da soli per evitare grane. Che tanto la tua presenza è inutile e che sono loro, i “bulletti”, quelli che hanno capito tutto della vita. E allora ti isoli davvero. E resti solo. Coltivi il tuo microcosmo. E quando arrivano gli amici, quelli veri, e ormai hai oltre vent’anni, le cose iniziamo a sistemarsi. Ma sai di esserti perso molto nel frattempo, a partire dai compagni di classe delle superiori dei quali non hai mai coltivato amicizie davvero profonde perché ancora troppo “scottato” dai coetanei delle medie. Sai che quelle cicatrici – forse non le uniche – resteranno. E condizioneranno ancora a lungo quello che sei. Anche se in sostanza quello che è capitato a te è un centesimo di quello che è capitato, in età adulta, al povero Andrea di Vercelli.
Se scrivo queste righe non è per denunciare ingiustizie ormai cadute in prescrizione, né per chiedere a chi fa il nobile lavoro di professore, o veglia sui luoghi di lavoro o nei più disparati contesti sociali, dagli allenatori agli animatori, di impedire che certi “scherzetti” innocenti si tramutino – come al loro solito – in ferite che non guariscono più. Specie ora che ci sono gli smartphone.
È che questa foto, in questa mezzanotte di venerdì sera, mi fa un male cane e non so spiegarmi il perché. Ma forse è perché rappresenta l’impotenza di chi ti vuole bene di fronte a un mondo che non vede l’ora di sbranarti, senza un valido motivo, per giunta.

Autonomisti ed Europeisti devono allearsi. (In Fretta)
Perché autonomisti ed europeisti devono allearsi. E in fretta.
Per alcuni un azzardo, per altri una bestemmia. Da una parte ci sono i “barbari sognanti” che negli anni ’90 sognavano un Nord libero da Roma. Ci sono i promotori dei referendum (e delle trattative) per una maggiore autonomia delle Regioni. C’è chi vorrebbe – non solo per slogan – “essere padrone a casa sua”. Dall’altra parte c’è chi, fin dalle macerie delle guerre mondiali, sogna un’Europa spazio comune per merci, capitali, imprese ma soprattutto persone. C’è la generazione degli Erasmus che l’Europa unita non la sogna ma già la vive spostandosi da una capitale all’altra. C’è chi, con la sua botteghina e la sua fabbrichetta all’ombra delle Alpi, lavora a stretto contatto con francesi, sloveni, austriaci e tedeschi come se fosse la cosa più naturale del mondo, perché in questi decenni lo è diventata.
Autonomisti ed europeisti. Istanze molto diverse in apparenza, ma un unico grande e pericoloso nemico: il sovranismo nazionalista, desideroso di bruciare ogni identità e ogni appartenenza sulla pira innalzata all’idolo dello Stato centrale.
Abbiamo già sperimentato quanto siano forti gli appetiti di questo centralismo assoluto. All’epoca del Risorgimento, le volontà di popoli assai diversi di potersi autodeterminare in una confederazione di Stati liberi, sul modello svizzero proposto da Gioberti, venne piegata dalla smania accentratrice di Casa Savoia, che da una parte ha ritardato di un secolo lo sviluppo del Nordest, dall’altra ha creato quella questione meridionale che da allora non ha mai smesso di aggravarsi. I generali macellai della prima guerra mondiale prima e il fascismo hanno poi chiesto a milioni di italiani di sacrificare la vita sull’altare di uno Stato nato pochi decenni prima. Anche in epoca Repubblicana le istanze romane hanno sempre avuto la meglio sui bisogni dei territori, dal rifiuto di dare più poteri a Comuni e Province in sede di Assemblea Costituente fino alla sciagurata scelta di Tremonti di far rispettare il Patto di Stabilità Europeo non facendo dimagrire i ministeri e tagliando gli sprechi, ma castrando gli enti locali impedendo di spendere quelle poche decine di migliaia di euro in marciapiedi e asfaltature.
Lo Stato centrale agisce come il leviatano descritto da Thomas Hobbes: nessuna realtà è sopra di lui, nessun potere può superarlo. Ma in questo mondo sempre più complesso e sempre più piccolo, circondato da immense potenze, l’Europa negli ultimi decenni ha iniziato a fare squadra, generando, innegabilmente, prosperità economica, benessere e pace. E ogni accordo, anche il più piccolo, viene sempre descritto come “cessione di sovranità”. Proprio qui si può vedere il primo assurdo: non sono i popoli che cedono la sovranità, ma gli Stati, gli unici titolari di ogni potere.
Autonomisti ed europeisti contestano allo stesso modo lo strapotere dello Stato centrale: i primi desiderosi di salvaguardare le identità locali, sia dal punto di vista culturale e linguistico che da quello politico, i secondi, invece, per lavorare ancora di più alla costruzione di una “casa comune europea”, spazio politico, unico al mondo, graziato da un capitalismo che con i contrappesi del welfare garantisce benessere alla più vasta platea di cittadini della storia.
È tempo di rileggere quel principio di autodeterminazione dei popoli sancito dal diritto internazionale in un modo completamente diverso rispetto al passato. Lo scrivente si sente veneto, si sente italiano, si sente europeo, perché fa effettivamente parte del popolo veneto, del popolo italiano e del popolo europeo. Sarebbe una follia sacrificare – o anche solo sminuire – alcune di queste identità contro un’altra, come vorrebbero fare i sovranisti.
Un legislatore ispirato riscriverebbe l’attuale governance attraverso il principio di sussidiarietà a tutti i livelli. Tradotto: ogni istanza dovrebbe venire affrontata il più vicino possibile ai cittadini e dovrebbe diventare di competenza di un ente superiore solo quando questa potrebbe venir risolta al meglio. È assurdo rivolgersi a Roma per asfaltare una strada, quando può farlo il sindaco. Per lo stesso principio di sussidiarietà, è assurdo in Europa avere 27 eserciti nazionali diversi per difenderci dalle stesse minacce, è assurdo non avere un unico database dei sospettati di terrorismo o di traffici umani, è assurdo non avere un’unica politica migratoria comune ed è assurdo marciare sparsi per i grandi temi di politica estera.
Il Trattato di Lisbona, firmato nel 2007, propone anche nuove soluzioni ai bisogni di oggi. Pochi ne hanno sentito parlare, ma il 18 ottobre 2013, a Grenoble, sette nazioni e 48 regioni diverse hanno fondato la “Macroregione Alpina Eusalp”, spazio economico che concentra, da Monaco a Milano, da Lione a Vienna, tra le città e le regioni più ricche e produttive del mondo, Svizzera e Liechtenstein compresi. Un imprenditore e un lavoratore lombardo sono più connessi con il Ticino che con Palermo, la PMI di Treviso ha più clienti in Carinzia che a Napoli. E allora perché ciò che succede in Sicilia o in Campania dovrebbe avere un maggiore impatto sulle sue tasche?
I sovranisti, invece, con le loro politiche, non faranno che rendere le Regioni del Nord più lontane dall’Europa e più vicine al Sud, non per risollevarlo – anzi, a narcotizzarlo definitivamente ci penserà il reddito di cittadinanza – ma per assumerne, forse, le sembianze. Per spaventarsi basta leggere le analisi dei cosiddetti “no-euro”, per i quali per produrre ricchezza non bisogna tornare ad investire sul lavoro, sulla competitività, sulla crescita, ma semplicemente stampare moneta e ricorrere all’inflazione, odiosa tassa occulta che penalizza proprio chi lavora e chi risparmia. Gli ideologi del “no-euro” di scuola toscana sembrano ignorare che ogni cesura con l’Unione Europea getterebbe sul lastrico primo tra tutti quel Nord produttivo e risparmiatore: criticare l’Europa va bene, cercare di distruggerla e venirne travolti (vedasi il caso Brexit) in nome di un tricolore fino a cinque anni prima calpestato è pura follia, o, peggio ancora, totale disonestà politica.
Se il governo gialloverde continuerà con le sue politiche di assistenzialismo e di centralismo in pochi anni la questione settentrionale tornerà di strettissima attualità, possibilmente in modo ancora più drammatico rispetto al passato.
È urgente, dunque, un dialogo aperto e franco tra autonomisti ed europeisti al di là di ogni steccato ideologico, per farsi trovare pronti alle sfide che presto verranno:
- La sfida di una vera autonomia, anche fiscale, delle Regioni, aperte sì alla solidarietà verso chi è rimasto indietro ma allo stesso tempo pronte ad applicare quel principio di responsabilità quasi mai applicato in Italia;
- La sfida di una vera Europa politica, in cui il Parlamento Europeo, espressione diretta, con il voto, della volontà dei popoli europei abbia un ruolo preponderante rispetto al Consiglio Europeo, espressione dei governi degli Stati centrali;
- La sfida della modernità nelle sue mille facce, dalle infrastrutture come la Tav alla ricerca scientifica e tecnologica, perché le nostre imprese possano competere ai massimi livelli.

La conversione di un cowboy in Red Dead Redemption 2. I videogiochi vanno presi sul serio
La scena è quella che potremmo definire una “scena madre”, crocevia dell’intero racconto. È questo il punto a cui lo spettatore è stato pazientemente condotto. È qui che tutto cambierà, che la storia prenderà la sua giusta tangente e acquisterà il suo senso.
Ci troviamo, dopo l’ennesima avventura, in una stazione ferroviaria isolata nel bel mezzo della prateria. Il protagonista non è più il baldanzoso cowboy che avevamo conosciuto all’inizio, ma un bandito stanco e malato, costretto da una tubercolosi terminale a fare i conti con la sua mortalità. Il capobanda, Dutch, verso il quale aveva riposto tutta la sua fiducia, è ormai fuori controllo. L’unica preoccupazione che è rimasta a quest’uomo morente è mettere in salvo le persone a cui tiene.
Vicino al cowboy siede una suora, una religiosa in partenza per la missione in Messico, incontrata lì per caso. Si conoscono: in passato il bandito aveva dato una mano alla suora per il suo orfanotrofio. Lei lo guarda, e vede in lui tutto il bene che il vecchio cowboy non era mai stato in grado di vedere in sé stesso.
“Io non credo in niente”, confessa Arthur. “Anch’io il più delle volte”, risponde la suora, “ma poi vedo persone come lei e tutto ritrova il suo senso”. “Ho paura”. “Non c’è nulla di cui avere paura. Scommetti sul fatto che l’amore esista davvero e compi un atto d’amore“. E il cowboy va incontro alla sua redenzione.
No, non è una scena di un film di Sergio Leone, accompagnata da una colonna sonora di Morricone. Non è nemmeno un romanzo, né uno di quei serial TV che vanno tanto di moda negli ultimi anni.
La scena appena descritta è una sequenza di gioco di “Red Dead Redemption 2”, videogioco uscito per Playstation 4 e Xbox One lo scorso 26 ottobre. Ambientato nel 1899, questo gioco supera per investimenti e soprattutto per incassi i più grandi kolossal di Hollywood, con 725 milioni di dollari guadagnati nei primi tre giorni di vendita.
“Red Dead Redemption 2” è un videogioco “open world”. Il giocatore può fare virtualmente tutto ciò che vuole, spostarsi a cavallo in un’area sconfinata di decine di chilometri quadrati per andare a caccia, affrontare bande rivali, entrare in un saloon per giocare a poker o scazzottarsi con gli avventori ubriachi. È un’esperienza “immersiva” ai limiti del fotorealismo che si prende molto sul serio.
Il gioco è stato prodotto da “Rockstar Games”, la stessa software house responsabile di titoli come GTA, criticati per la violenza e per la possibilità di compiere un’innumerevole serie di reati. Si tratta di titoli rigorosamente vietati ai minori di 18 anni, pensati per un pubblico adulto, esattamente come serie TV come Breaking Bad o film come Pulp Fiction di Tarantino.
Come il blogger di Famiglia Cristiana Giuseppe Romano invitava a fare cinque anni fa in occasione del lancio di GTA 5, «se a un adulto non piace […] addossarsi il ruolo del delinquente per gioco, libero di non comprare GTA e di sconsigliarlo. Ma non di sottovalutarlo».
Il rischio più grosso di fronte al variegato mondo dei videogiochi è proprio la sottovalutazione da parte di chi non se ne intende, oppure, peggio ancora, guarda al fenomeno come un mero passatempo per ragazzini, uno sterile killer di neuroni. La TV fa meno paura: molti genitori permettono ai figli di poltrire per ore di fronte alla TV, ma appena sentono il “beep” di una Playstation che si accende scatta il panico.
Ma i videogiochi, fenomeno di massa ormai da quarant’anni con i primi Atari domestici, sono quanto di più serio ci possa essere, sia per numeri che per qualità di alcuni prodotti.
Chiariamoci: ci sono videogiochi orribili, ci sono videogiochi assolutamente non adatti per i bambini, ci sono videogiochi – anche quelli apparentemente innocenti pensati per le massaie con il telefonino – che sfruttano meccanismi compulsivi e sviluppano dipendenza. Eppure, nello scenario attuale, vi sono titoli straordinari, poetici, educativi anche quando non didattici.
Educatori, insegnanti, genitori non possono più ignorare l’esistenza di questo mondo, ma devono quanto prima impararne le logiche che lo governano, devono capire quali sono i titoli adatti ai ragazzi e quali no, devono comprendere, quando non possono condividere, i motivi che rendono alcuni titoli attrattivi rispetto agli altri. I rischi della rimozione sono molteplici, dal lasciare che il ragazzo si addentri in mondi che non gli competono all’abuso, fino alla colpevolizzazione aprioristica da parte dei genitori verso ciò che non si comprende.
I videogiochi non sono – e forse non sono mai stati – un fenomeno marginale. Sono un media a sé, con alti e bassi, specificità e pericoli, opportunità e linguaggi propri come cinema e televisione. Le comunità cristiane fin dagli albori del grande e del piccolo schermo hanno fatto sentire la loro presenza per guidare, suggerire ed eventualmente mettere in guardia. Questo sforzo non può venire meno adesso.
Tornando a “Red Read Redemption 2”, nessuno potrà negare che sia un’opera magistrale, anche se non adatta ai minori esattamente come un crudo spaghetti western degli anni ‘70. In questo gioco potremmo fare di tutto: sparare, uccidere, derubare. Potremmo, perché la storia di Arthur, il suo personale cammino di conversione, ci porterà a scegliere scientemente di non farlo, anzi, pure in questo mondo virtuale sentiremo la responsabilità di fare sempre la cosa giusta, anche quando ci costerà fatica, impegno e denaro (virtuale).
In altri videogiochi si accumula denaro e si diventa più forti. In “Red Dead Redemption 2” si diventa più deboli e si dà via la ricchezza acquisita per riparare il maltolto e cercare la redenzione. È qui che sta la cifra del capolavoro.
Andrea Canton
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